giovedì 7 novembre 2019

“Troppi insulti e offese sui social”: il Viminale assegna la scorta a Segre. Ma volevano toglierla a Capitano Ultimo



Da oggi Liliana Segre avrà la scorta. I carabinieri del comando provinciale di Milano garantiranno la propria presenza al fianco della senatrice a vita a ogni evento pubblico. La misura di protezione – che già da tempo era sotto esame – è stata disposta nel pomeriggio di ieri, nel corso del Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico presieduto dal prefetto Renato Saccone e al cui tavolo erano presenti anche i vertici cittadini delle forze dell’ordine.

Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha inserito il provvedimento di tutela nelle priorità. Ora dunque, come riporta il Corriere della Sera, in ogni spostamento e uscita pubblica sarà protetta. Va sottolineato che si tratta di un livello più blando di scorta, con un’auto e due uomini delle forze dell’ordine. La decisione è stata presa in seguito sia all’escalation di commenti offensivi e insulti apparsi recentemente sui social nei suoi confronti sia all’intensificazione degli impegni pubblici che la vedono protagonista.
Campagna di violenza
Da un anno è stato stato aperto un fascicolo in Procura sotto il coordinamento del pool antiterrorismo del magistrato Alberto Nobili. Sopravvissuta all’Olocausto dopo la deportazione nel campo di concentramento di Auschwitz, la Segre ha ammesso che attraverso i social network riceve circa 200 messaggi al giorno che incitano all’odio razziale: “Sono persone per cui avere pena e vanno curate“.

Durante un incontro all’università Iulm ha detto che spera sempre in un loro recupero dl punto di vista etico e morale: “La speranza in una nonna c’è sempre, ma la realtà qualche volta si abbatte sopra la speranza con una bastonata tremenda. Io di bastonate ne ho prese tante e sono ancora qui“. La senatrice a vita si è rivolta più volte agli haters: “Ogni minuto della nostra vita va goduto e sofferto. Bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte e non perdere tempo a scrivereauna 90enne per augurarle la morte. Tanto c’è già la natura che ci pensa“.

Intanto ieri fuori dal Municipio 6, a Milano, è apparso uno striscione con la firma di Forza Nuova: “Sala ordina: l’antifà agisce. Il popolo subisce“. La vicenda è stata denunciata da Santo Minniti, il presidente Pd del Municipio che governa il territorio tra Barona, Giambellino e Lorenteggio. La Segre aveva in programma una conferenza insieme a don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria, davanti a centinaia di studenti.

Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino: me nelle scuole italiane è proibito parlare degli orrori del comunismo



Sono passati trent’anni dal giorno della caduta del Muro di Berlino, quel 9 novembre del 1989 che per molti è un ricordo degli occhi e del cuore, ai ragazzi è stato tramandato tra racconti familiari e The Wall dei Pink Floyd, per tutti è una data entrata nei libri di storia e nei testi che si studiano a scuola.

Eppure la condanna del comunismo divide ancora, e capita, è capitato ieri che in commissione Cultura alla Camera si dibatta un’intera seduta per censurare l’espressione «dittatura comunista» di stampo sovietico, e proprio in un testo che vuole impegnare il governo a verificare che nelle scuole si celebri realmente il «Giorno della libertà» istituito nel 2015.

A opporsi all’espressione «dittatura comunista» è stato Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, l’area della maggioranza più radicale che fa riferimento a Leu, sostenuto dal sottosegretario al Miur, Giuseppe De Cristofaro, ex parlamentare di Rifondazione comunista oggi esponente di governo di Si. Non è caduta «la dittatura comunista», ma «la dittatura del socialismo reale», la tesi sostenuta dagli esponenti di Sinistra italiana.

È così partita una battaglia da azzeccagarbugli che ha impedito di arrivare a una risoluzione condivisa. Si spera che oggi un ritorno alla realtà di ciò che è stato riporti il comunismo nel testo, così da arrivare a una mozione unitaria. Ma nel frattempo la commissione Cultura della Camera, a trent’anni dalla caduta del Muro, è rimasta travolta per un giorno dalle vecchie macerie, a dibattere se quel 9 novembre a Berlino fosse davvero caduta la dittatura comunista o il socialismo reale.

La risoluzione contestata è stata presentata da Fratelli d’Italia, con Paola Frassinetti come prima firmataria, dalla Lega con Daniele Belotti e da Forza Italia con Valentina Aprea. «Il 9 novembre ha rappresentato per milioni di persone il giorno della ritrovata libertà dopo decenni di dittatura comunista» il passaggio che ha fatto inciampare i parlamentari della sinistra radicale.

Le risoluzioni presentate per la discussione congiunta, con l’intenzione di fonderle in una sola, sono state tre: una di maggioranza, una seconda a firma di Alessandro Fusacchia di +Europa, confluita nella risoluzione della maggioranza, e la risoluzione del centrodestra, la prima a essere depositata e quindi discussa. Si lavorava agli impegni per stendere una risoluzione unitaria quando si è levata l’opposizione dell’area radicale di Leu alla «dittatura comunista». Uno stop inatteso che ha riportato indietro di decenni l’orologio della storia.

«Dopo la risoluzione del Parlamento europeo, il comunismo è equiparato ad altri totalitarismi. Per questo, la censura è da ritenersi odiosa e inaccettabile. Sotto la cortina di ferro del comunismo, sono morte milioni di persone» è la protesta sulle labbra di Federico Mollicone, capogruppo di Fdi in commissione Cultura. «È vergognoso come questo governo non ammetta la parola comunismo, come se nulla fosse accaduto. Quanto avvenuto in commissione Cultura è inaccettabile» commenta il leghista Belotti, capogruppo del suo partito in Commissione. E l’azzurra Valentina Aprea parla di «revisionismo storico» e aggiunge: «È fondamentale insegnare alle giovani generazioni che con la caduta del Muro ci siamo liberati dalla dittatura comunista di stampo sovietico. Noi combattiamo tutti e tre i totalitarismi del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo. E nei Paesi del blocco sovietico la gente è stata privata della libertà a causa del comunismo».

“Se Giorgia Meloni è cristiana, io non ho mai fatto……”: il delirio dell'”intellettuale” di sinistra Valentina Nappi



Persino Vittorio Sgarbi aveva suggerito alla pornostar Valentina Nappi di occuparsi “di ciò che concerne il suo lavoro”, e di risparmiare agli italiani le sue imbarazzanti boutade su politica e tematiche sociali, con predilezione (ma forse sarebbe meglio chiamarla ossessione) per il ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Forse il suo lavoro non la soddisfa, forse vorrebbe dimostrare che lei esiste “oltre” la sua carriera nel mondo dell’hard; forse ha solo bisogno di considerazione tra una gang bang con le “risorse” e l’altra, e sublima questo bisogno nella ricerca compulsiva di sovraesposizione mediatica. Non le importa quindi se le sue dichiarazioni sono intelligenti, conta solo il valore assoluto dell’onnipresenza social.

Così, dopo le polemiche infinite con il leader del Carroccio, passato un periodo di silenzio stampa la Nappi torna in pista con una delle sue strabilianti analisi politiche. Stavolta il bersaglio è cambiato. L’attrice hard preferisce spostarsi verso la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, in questo periodo in forte ascesa nei consensi.

Si vede che alla Nappi questa cosa non è andata proprio giù, e allora cosa c’è di meglio di un bel tweet-rosicata da dare in pasto ai followers per far parlare un po’ di sé? Citando frase “Io sono Giorgia e sono cristiana”, pronunciata dalla Meloni dal palco di Piazza San Giovanni qualche settimana fa, l’attrice ne ha così messo in dubbio la cristianità: «Se Giorgia Meloni è cristiana, io non ho mai fatto sesso anale», riferendosi al fatto che la deputata ha avuto una figlia fuori dal matrimonio.

Del resto è proprio la persona più qualificata, la Nappi, per stabilire se la leader di FdI sia una buona cristiana o meno. Forse qualcuno le dovrebbe spiegare che il situarsi fuori dalla comunità dei credenti in Cristo passa per violazioni o mancanze decisamente più gravi rispetto a un figlio fuori dal matrimonio. Non ci si spoglia della cristianità per una mancanza vera o presunta, ma ci sentiamo anche un po’ stupidi a doverlo spiegare alla Nappi, una che chiedeva “l’aborto obbligato per tutti i poveri che non possono offrire una vita agiata per i propri figli”.


mercoledì 6 novembre 2019

Per il Movimento Cinque Stelle si mette male: Alessandro Di Battista fa di nuovo le valigie e “fugge” in Iran



Che fine ha fatto Alessandro Di Battista? Presto detto: dopo il lungo viaggio in Sud America, ora è la volta dell’Asia. Destinazione Iran. Già, perché l’ex parlamentare del Movimento 5 Stelle è partito martedì sera per la capitale Teheran, dove dovrebbe rimanere fino a Natale.

Il motivo dell’ennesimo viaggio di Dibba cerca di spiegarlo Il Fatto Quotidiano, scrivendo che l’obiettivo dell’ex delfino di Beppe Grillo – fondatore e attuale garante del M5s – sarebbe quello di compiere tutte le ricerche necessarie per la stesura di un nuovo libro dedicato alla politica internazionale.

Insomma, gli esteri come “nuova” grande passione Di Battista, che pare però sempre meno attento e interessato alle vicende politiche italiane, specialmente quelle che riguardano da vicino il suo partito, al governo – seppur con due partner differenti – da oltre un anno e mezzo. E in totale disfacimento, visto le debacle elettorali inanellate.

Non è infatti un mistero che l’ex deputato grillino sia desaparecido dalla scena politica nostrana da molto tempo: recentemente, seppur per problemi familiari, ha saltato a piè pari anche la kermesse di Italia 5 Stelle in quel di Napoli. E non è neanche un mistero che Di Battista sia stato estremamente contrario all’inciucio che ha portato alla formazione e all’insediamento dell’esecutivo tra il “suo” Movimento e il Partito Democratico, storico avversario politico. E in più occasioni, infatti, ha espresso la sua contrarietà con lunghi e piccati post sulla propria bacheca Facebook.

Il caso Di Battista, se vogliamo, è emblematico del caos che ha travolto – e continua a travolgere – l’interno Movimento 5 Stelle. Subito dopo le Politiche del 4 marzo 2018 – in occasione delle quali non si è candidato – Dibba ha fatto le valigie e insieme alla famiglia (la compagna e il figlio Andrea) se ne è andato in Sud America, come inviato speciale del Fatto e della web tv Loft.

Poi, in seguito al progressivo crollo nei sondaggi del M5s, gli alti papaveri del partito lo hanno richiamato in Italia con la speranza che potesse risollevare le sorti della compagine pentastellata. Ma le cose sono andate sempre peggio, visto che le sue sparate critiche non hanno fatto altro che acuire la crisi dei 5stelle, erodendo ulteriormente il bacino elettorale del Movimento. E allora, dopo averlo fatto tornare, gli hanno messo il “silenziatore” e lui si è fatto da parte. Il tutto nonostante, come recentemente scritto, diversi big 5s gli abbiamo pubblicamente espresso sostegno, invocando proprio Di Battista come nuovo leader al posto di Luigi Di Maio.

Ora, dopo settimane di silenzio, la novità. Un viaggio che lo porta ancora una volta lontano dall’Italia e dalle beghe del Movimento 5 Stelle. Dal quale, evidentemente, vuole sempre più prendere le distanze.

“Ogni giorno che passa è un voto in più a Salvini”. Nel PD è rivolta contro Di Maio e Renzi: “La corda si sta spezzando”


Due mesi di vita e il governo è già in un tunnel senza uscita. I protagonismi di Matteo Renzi e Luigi Di Maio, gli scontri (violentissimi) sulla manovra economica, il braccio di ferro sulla presidenza di Giuseppe Conte e soprattutto lo scossone della scottante sconfitta alle elezioni regionali in Umbria hanno messo a nudo la maggioranza giallorossa scatenando un uno contro tutti che non solo sta lacerando l’esecutivo ma che sta logorando tutti i partiti che ne fanno parte.

E, mentre dall’Emilia Romagna arrivano sondaggi a dir poco allarmanti per la sinistra, Nicola Zingaretti ha convocato una riunione urgente con la delegazione di governo del Pd durante la quale sono emersi tutti i malumori nei confronti degli alleati.

“Dicevate che Salvini è un cretino. E invece, adesso si sta capendo tutto…”. Parlando con Repubblica dell’esperienza con il Movimento 5 Stelle al governo e la chiusura dell’alleanza che ha segnato le cronache politiche della scorsa estate, il leghista Giancarlo Giorgetti spiega molto bene il pantano in cui è andato a invischiarsi il Partito democratico scendendo a patti con i Cinque Stelle. Negli ultimi due mesi i giallorossi non hanno fatto altro che litigare su tutto.

Dall’emergenza immigrazione alle misure economiche, è stato un tutto contro tutti continuo. Tra i due litiganti, poi, si è messo pure Renzi che, oltre a drenare parlamentari ai dem, li sta pure puntellando sul territorio facendogli perdere consensi ovunque. “Quel che ha fatto Matteo (Salvini, ndr) in estate si sta rivelando un investimento sul futuro. Vedrete, vedrete…”, commenta l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

Che non si tira indietro dal dare un consiglio netto a Zingaretti: “Se fossi al posto di quelli del Pd, scapperei a gambe levate, me ne andrei all’opposizione”. Per ora la sete di poltrone e i timori un nuovo flop elettorale, sta tenendo incollata la maggioranza. Ma al Nazareno, come scriveva già ieri sera Alessandro De Angelis sull’Huffington Post, qualcosa sta iniziando cambiare. “Se l’andazzo è questo – avrebbe detto Paola De Micheli durante una riunione a Fincantieri – ogni giorno che passa è un voto in più a Salvini”.

All’incontro di questa mattina insieme a Zingaretti erano presenti anche il capo delegazione dem Dario Franceschini e i capigruppo di Camera e Senato Graziano Delrio e Andrea Marcucci. Sulla carta, come spiega l’agenzia Agi, l’incontro avrebbe dovuto essere l’occasione per fare il punto sulla manovra economica, ma fonti del Partito democratico hanno poi fatto trapelare che dal vertice è emersa una “forte esasperazione nei confronti degli atteggiamenti tenuti in queste ore da Renzi e Di Maio”. “Se tirano troppo la corda – è stato il ragionamento durante la riunione – questa rischia di spezzarsi…”.

Il punto è che, negli ultimi giorni, il capo politico dei Cinque Stelle e il leader di Italia Viva si sono comportati come se fossero entrambi all’opposizione. Le liti sulla plastic tax, il braccio di ferro sul balzello sulle auto aziendali e, poi, il dossier Arcelor Mittal: ogni occasione è stata buona per scornarsi. E, mentre i sondaggi resigistravano flessioni continue sia per i Cinque Stelle sia per il Partito democratico, al Nazareno qualcuno ha iniziato a sventolar bandiera bianca. “Se andiamo avanti così, si va a sbattere”, hanno fatto presente in molti a Zingaretti suggerendogli, senza troppi giri di parole, di staccare la spina al Conte bis. “Se la logica è ‘ognuno fa come diavolo gli pare’ – hanno confidato all’HuffPost gli uomini di Zingaretti – facciamo capire che anche noi ci siamo stufati…”.

Per il momento, però, il governo (per quanto perennemente appeso a un filo) non sembra per nulla in bilico. Troppi interessi di bottega sembrano spingere i leader dei partiti, che siedono al tavolo con Conte, ad evitare qualsiasi crisi politica. “Se qualcuno pensa di andare a votare dopo una manovra gestita male è da Tso”, ha messo le mani avanti Roberto Speranza dopo l’ultimo Consiglio dei ministri. “Questa operazione – ha detto – ha senso se dura tre anni, altrimenti, se ci spaventiamo alla prima curva, era meglio andarci a settembre”. Intanto l’ultimo sondaggio realizzato da Ixè per la trasmissione Cartabianca inchioda il Pd al 20% e i Cinque Stelle al 17%, mentre il centrodestra sfiora il 50% dei consensi con la Lega che guida le danze oltre il 32% dei voti. Un avviso di sfratto che Zingaretti ora vuole provare a gestire al meglio per perdere meno scranni possibile.

Il PD non conosce vergogna: “Bibbiano? Un piccolo raffreddore, il sistema è sano”. Ira del centrodestra: “Allucinante”



Bibbiano? Solo un piccolo «raffreddore». Parola di Giuliano Limonta, nome che non dice nulla ai più ma è quello del presidente della commissione tecnica regionale sui minori voluta dal governatore dell’Emilia, Bonaccini, dopo i gravissimi fatti emersi dalle pratiche degli affidi dei minori in Val d’Enza. Bibbiano, insomma, è stato uno scherzo.

 Uno scherzo l’inchiesta della magistratura sull’impennata del numero degli affidi dei bambini a famiglie scelte dagli assistenti sociali, preferibilmente omosessuali. Così come gli arresti del sindaco di Bibbiano e dei funzionari comunali. A cominciare da quello di Federica Anghinolfi. Secondo i pm, era lei il perno del giro di bambini strappati alle famiglie per essere affidate a coppie amiche.
La commissione Limonta: «In Emilia il sistema degli affidi è sano»
La Anghinolfi, lesbica dichiarata, preferiva quelle arcobaleno. Un paio di bambini li ha dati pure a sue ex-compagne. Un ruolo, importante, il suo. Coordinava i servizi sociali dell’intera Val d’Enza, di cui Bibbiano era il comune capofila. Ma è tutto uno scherzo, secondo Limonta. E, ovviamente, secondo la commissione da lui presieduta. Certo, non era possibile immaginare un finale diverso a tre mesi dalle elezioni regionali in Emilia Romagna.

Così come era impossibile che Limonte parlasse di «cancro» piuttosto che di «raffreddore» senza evocare il «mai con quelli di Bibbiano» scandito a reti unificate da Di Maio al tempo dei suoi furori anti-Pd. E allora vada per il «raffreddore». Quanto al resto, assicura Limonta, il sistema emiliano degli affidi è senza macchia e fila che una meraviglia.
Anche per il M5S è un «raffreddore»?
Il centrodestra, ovviamente, la storiella del «raffreddore» non la beve e annuncia battaglia. «È un’espressione allucinante», attacca il leghista Gabriele Delmonte della Lega. Il capogruppo di FdI in regione Michele Facci punta il dito invece sulla povertà della relazione Limonta: «Avremmo dovuto avere più dati per dire che il corpo è sano. Sul tema degli affidi, non abbiamo nemmeno i dati sulle tipologie di collocamento e sui rientri dei minori in famiglia».

Nicchiano i grillini, stretti come sono tra le roboanti dichiarazioni del passato contro il «sistema Bibbiano» e la loro attuale condizione di alleati del Pd. E così il capogruppo Andrea Bertani si rifugia dove può. Trova la tana nello squilibrio tra i poteri dei servizi sociali e l’«insufficiente» dotazione professionale. Il «raffreddore», appunto.

Roma, a scuola il corso di arabo per “integrare” i bambini italiani. Insorge il centrodestra: “Inaccettabile”



Lezioni di lingua araba, una volta alla settimana, di pomeriggio e nella sede della scuola. Succede a Roma, all’Istituto Comprensivo Statale “Nando Martinelli“, una struttura che ospita l’infanzia, la primaria e le medie.E dove due giorni fa sono partite le iscrizioni per il corso “offerto dalla nostra scuola” e “tenuto da un genitore madrelingua“.

La circolare numero 59, che ilGiornale.it ha ricevuto da genitori dell’istituto, è rivolta al personale Ata, al personale docente e alle famiglie degli alunni. Con una particolarità: la “precedenza” è stata data ai bambini “di origine araba”. “Si chiede alle famiglie degli alunni – si legge nel testo – di iscrivere, entro il 13 novembre, i propri figli al corso gratuito di lingua araba“. Non appena il progetto avrà inizio “si svolgerà una volta alla settimana” nella “sede di via Ildebrando della Giovanna”. Saranno lezioni da un’ora, non in orario scolastico, dalle 16.30 alle 17.30.

Abbiamo telefonato più volte al dirigente scolastico per ottenere ulteriori informazioni e capire a quali studenti sarà diretto. La preside però non era disponibile e non è riuscita a richiamarci. Nella serata di ieri, come suggerito, abbiamo provato a inviarle una mail e restiamo in attesa di risposta. Non tutti infatti sono favorevoli all’iniziativa. “Non mi sembra giusto sfruttare le aule – dice un genitore, che chiede l’anonimato – Il corso di arabo non è una necessità e non è utile“.

Contrario anche Fabio Rampelli, deputato di Fratelli d’Italia e vicepresidente della Camera: “Ci sembra un fatto positivo che già dalla scuola dell’infanzia i bambini familiarizzino con altre lingue. Ma pensiamo sia giusto farlo nei confronti di quelle occidentali, inglese e spagnolo prime fra tutte. Per l’arabo o il cinese arriverà il tempo delle scuole specializzate o dell’Università, non ci sembra il caso di inserirli nella scuola dell’obbligo”.

Sulla stessa linea pure la Lega. Marco Giudici, Giovanni Picone (consiglieri al Municipio XII) e Fabrizio Santori (dirigente romano) definiscono il corso “inaccettabile e inopportuno“. “Presenteremo un’interrogazione – assicurano – per capire perché la scuola Nando Martellini promuova corsi di arabo anziché agevolare l’integrazione dei bambini potenziando l’insegnamento dell’italiano ai minori stranieri”. Il caso ora potrebbe arrivare all’attenzione del Miur: “Chiederemo che il Ministro delle merendine Fioramonti intervenga e si interessi alla Martellini – concludono i leghisti – per garantire lo sport e la sicurezza dei bambini in una scuola periferica con la palestra inagibile perché interessata da copiose infiltrazioni”.

Ed è proprio sulle “priorità” che alcuni storcono il naso. “Viste le carenze strutturali degli edifici e con tutti i problemi che abbiamo“, sussurrano altri due genitori, “la proposta stona e sembra un po’ una provocazione“. Inoltre, “non lo consideriamo un arricchimento culturale“. Non è forse un caso se iniziative analoghe hanno provocato reazioni simili lungo tutta la penisola. Solo per fare qualche esempio, lo scorso giugno a Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano, una insegnante madrelingua aveva parlato di cultura araba agli alunni delle elementari. Mentre in provincia di Modena erano state organizzate lezioni domenicali di arabo e di islam.

E così la polemica politica non manca mai. “Va detto – conclude Rampelli – che non si è sereni nell’esprimere un giudizio sulle scelte dei dirigenti scolastici che prendono tali iniziative in un clima nel quale si chiede la rimozione dei crocifissi, il divieto dei presepi o la loro trasformazione in ‘villaggi globali’, l’imposizione dei menù etnici, l’abrogazione della carne di maiale dai tortellini e altre castronerie autolesionistiche, tanto per demolire l’identità nazionale ed europea a vantaggio delle abitudini mussulmane”.

Roma, banditi assaltano un bar-tabaccheria. Titolare reagisce e ingaggia una colluttazione: ucciso un rapinatore


Rapina violenta a Roma. Teatro del furto a colpi di pistola è stato un bar tabaccheria in zona Romanina, nei pressi di Cinecittà. Due rapinatori hanno fatto irruzione nel bar per rapinarlo. Ne sarebbe scaturita una sparatoria.

Uno dei due banditi è morto dopo essere stato ferito. Sul posto è scattato subito l’intervento dei poliziotti del commissariato di Romanina che hanno fermato i due ladri. Sul luogo della sparatoria è arrivata anche un’ambulanza del 118. Tra i feriti c’è anche il titolare del bar.

Adesso gli inquirenti stanno cercando di ricostruire in modo chiaro la dinamica della sparatoria e della rapina. Non è certo la prima volta che accade una rapina di questo tipo. Di fatto sono diversi i casi negli ultimi tempi in cui il titolare di un’attività ha deciso di reagire sparando ai ladri. Anche questa volta, il tabaccaio, probabilmente esasperato dall’ennesimo tentativo di furto, ha deciso di impugnare un’arma per difendersi.

 Intanto secondo le prima ricostruzioni, pare chiaro che si tratti di un conflitto a fuoco tra il titolare dell’attività e i due banditi. Poi un colpo di pistola avrebbe raggiunto proprio uno dei ladri che sarebbe morto poco dopo. Anche il tabaccaio sarebbe stato ferito proprio nel corso della stessa sparatoria. Tutto si sarebbe consumato in pochi minuti subito dopo le 19:30. I soccorsi arrivati sul posto sono stati inutili per il rapinatore: era già morto quando è arrivata l’ambulanza.
La dinamica della sparatoria
La dinamica dei fatti è stata la seguente: i due rapinatori a volto coperto hanno fatto irruzione nel bar. Poi hanno estratto le pistole intimando al barista di conegnare l’incasso. A questo punto è scoppiata una colluttazione. Il barista infatti sarebbe riuscito a prendere una delle armi dei due rapinatori. Poi ha fatto fuoco colpendo uno dei banditi.

Ma l’altro avrebbe esploso alcuni colpi che hanno raggiunto il titolare della tabaccheria al finaco e a una gamba: sarebbe in gravi condizioni. Il rapinatore ucciso aveva 69 anni, il suo complice, arrestato, ne ha 58. Il titolare del bar sarebbe un uomo di nazionalità cinese di 56 anni

Da “Onesta, onestà!” a “Omertà, omertà”: grillini zitti sulla Occhionero interrogata in Procura. E Boschi non risponde



Tutti zitti, grillini, Boschi, nessuno parla. Eppure Giusy Occhionero è interrogata dalla Procura di Palermo. La storiella del suo assistente Antonello Nicosia arrestato per mafia la deve spiegare bene, ci sono troppe incongruenze.

E un parlamentare, anche se di sinistra, non può rifugiarsi agevolmente in calcio d’angolo. Può anche salvarsi dalle indagini, ma la deputata eletta con Leu e poi approdata a Italia Viva, deve chiarire come ha scelto quel tizio, chi glielo ha suggerito. Politicamente, ci sono però anche altri lati oscuri.

E’ curioso, stravagante, bizzarro, il silenzio dei Cinquestelle sulla Occhionero. Omertà, omertà, pare di capire, dal momento che non pronunciano mai la parola Occhionero e in due o tre note di ieri hanno solo sottolineato – Di Maio dalla Cina compreso – che Nicosia era membro dei radicali italiani. Ma che la deputata fosse iscritta al gruppo parlamentare di Renzi, no. Non sia mai a Rignano dovessero offendersi.
“L’onorevole Boschi è impegnata tutto il giorno”
E poi la Boschi, che di Italia Viva a Montecitorio è capogruppo. A lei abbiamo chiesto di poter formulare alcune domande su questa vicenda che riguarda una parlamentare che è arrivata a infoltire le truppe del suo partito alla Camera. Ma la capogruppo renziana non fa sfoggio di trasparenza e svicola via. Parliamo con un suo collaboratore cortesissimo che ci dà l’indirizzo e-mail a cui scrivere le domande per l’intervista. E dopo qualche ora riceviamo la telefonata di una addetta stampa che dice “l’onorevole non può, è impegnata tutto il giorno”. Poverina, non è una priorità per Italia Viva parlare di mafia. Tacciono.
Chi ha trattato con la Occhionero? Vietato saperlo
Ci sarebbe piaciuto, ad esempio, sapere chi ha stabilito il contatto tra Italia Viva e la Occhionero, chi ha trattato per il suo ingresso nel partito. Oppure, se le intercettazioni apprese dai giornali sono da considerarsi inquietanti, aldilà del profilo penale, che non è detto debba essere riscontrato. E se avessero intenzione di sospendere dal gruppo una deputata che sceglie con tanta superficialità il suo assistente parlamentare. Infine, avremmo dato notizia con piacere della posizione di un partito appena nato sul 41-bis in carcere. In fondo, non è proprio un argomento da prendere sottogamba. Ma l’onorevole “non può rispondere”, è impegnata tutto il giorno. Anche domattina? Clic.

martedì 5 novembre 2019

Via Salvini torna il business per le cooperative: a Bologna riapre il Cas che ospiterà 200 richiedenti asilo


Il Mattei da oggi è aperto. E’ stata fatta una regolare comunicazione al sindaco. Il centro è stato oggetto di lavori che hanno ripristinato le condizioni di fruibilità per gli ospiti”.

Così il prefetto di Bologna Patrizia Impresa, al termine di un appuntamento nella sede di Confcommercio Ascom, ha fatto il punto sul centro in periferia che, come Cas (Centro di accoglienza straordinaria), accoglierà 200 migranti.

 In base all’esito della gara pubblica, ad occuparsi della gestione della struttura sarà un consorzio guidato dalla cooperativa L’Arcolaio.

I primi ospiti “saranno quelli – ha spiegato Impresa – che escono dai centri dove non è stato rinnovato il contratto. Poi il centro ospiterà gradualmente 200 persone. L’emergenza, al momento, non c’è ancora.

Noi abbiamo bandito della gare, quelle che non hanno dato esito positivo sono quelle che avevamo bandito con il sistema della micro-accoglienza. Abbiamo poi preparato due bandi per gare collettive fino a 50 posti e anche lì non abbiamo avuto esito”.

I dati parlano chiaro: i lavoratori stranieri producono meno degli italiani, eppure vanno in pensione prima


Qual è l’impatto degli immigrati sull’economia italiana? La fotografia scattata dalla Fondazione Moressa non lascia spazio all’immaginazione: costano tanto e producono poco. I dati, ripresi dal quotidiano Libero, sono emblematici e chiari.

I lavoratori stranieri in Italia producono una ricchezza dal valore di 139 miliardi di euro, cioè il 9% del pil. Il problema è che dichiarano al fisco un quinto del fatturato prodotto, 27,4 miliardi, e portano in dote appena 3,5 miliardi di gettito Irpef, considerando che quest’ultimo valore ammonta per il nostro Paese a 187 miliardi. Calcolatrice alla mano, gli stranieri garantiscono l’1,87% delle entrate a fronte di una spesa pubblica del 3%.
Quantità e qualità
È poi interessante fare un giro sul sito del ministero dell’Economia e dare uno sguardo al rapporto “Stranieri nel mercato del lavoro”. Si legge che nel 2018 la popolazione straniera in età da lavoro (15-64 anni) era pari a più di 3,95 milioni di individui: 2,4 milioni “occupati”, 399 mila “in cerca di lavoro” e 1,13 milioni “inattivi”.

Questi sono dati generali, perché ogni comunità fa storia a sé: ad esempio, gli elevati tassi di occupazione di filippini e cinesi – rispettivamente l’82,2% e il 72,4i% – si scontrano con i molti disoccupati marocchini (22,3%) e tunisini (19,9%). Altri dati: gli immigrati presenti in Italia hanno mediamente un basso livello di istruzione, visto che il 49,4% di loro non ha finito la scuola secondaria inferiore. Oltre alla qualità del lavoro che gli stranieri possono offrire, c’è poi da considerare che appena l’8,1% di loro hanno un contratto a tempo indeterminato.
In pensione prima degli italiani
Gli immigrati, come detto, producono poco. Eppure ottengono dallo Stato misure assistenziali per certi versi più convenienti di quelle che toccano agli italiani. Le pensioni erogate dall’Inps a cittadini extracomunitari denotano una prevalenza di assegni concessi a stranieri di classi di età più giovani rispetto alla media; infatti il 36,5% di queste pensioni finisce nelle tasche di extracomunitari under 60, contro il 4,1% del totale. In altre parole: gli extracomunitari vanno in pensione prima degli italiani. Il discorso non cambia se consideriamo le prestazioni assistenziali: quelle concesse agli extracomunitari under 60 sono la metà del complesso erogato a stranieri.

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